Negli ultimi mesi ci siamo confrontati più che in altri momenti, con la nostra percezione della realtà: abbiamo ascoltato, vissuto, filtrato degli eventi nuovi, inaspettati. Su questi abbiamo costruito valutazioni, talvolta giudizi che inevitabilmente condizioneranno anche le esperienze che vivremo in futuro, influenzandoci soprattutto a livello emotivo.
Non entro nel merito del contenuto degli eventi, mi soffermo sulle modalità con cui io per prima ho elaborato le mie percezioni, cadendo nella trappola delle scorciatoie della mia mente, delle mie euristiche e dei miei bias cognitivi.
Osservando il propagarsi del virus, mi sono posta un paio di domande: “come è stato possibile che dopo il primo paese ad essere colpito dall’epidemia, nessuno sia riuscito a prevedere quanto sarebbe accaduto? Eppure ci sono state delle avvisaglie. Perché le abbiamo ignorate?”
“Come mai di conseguenza, nessuno in Europa e nel resto del mondo, tranne poche eccezioni, è riuscito ad organizzarsi adeguatamente?”
Nelle mie domande ci sono almeno 2 distorsioni: il Bias della Disponibilità e il Bias del senno di Poi e del Risultato.
I Bias sono degli errori cognitivi che nascono da percezioni distorte della realtà. Li utilizziamo per prendere velocemente una decisione e spesso possono indurci ad errore. Rappresentano una necessità a cui ricorriamo, soprattutto quando non abbiamo altri elementi, o quando desideriamo farci un’idea della realtà. I Bias sono spesso il frutto delle euristiche, delle scorciatoie mentali, delle abbreviazioni che la nostra mente utilizza per arrivare rapidamente ad una conclusione. Si tratta di processi inconsci, a cui ricorriamo soprattutto di fronte ad un evento imprevisto.
Conoscere i bias è utile per comprendere gli errori che possiamo fare nel valutare persone, comportamenti, situazioni e comprendere come decide e percepisce chi abbiamo di fronte: un cliente, un paziente, un collaboratore. Ci permettono di approfondire le strategie che noi stessi utilizziamo per decidere e i modelli di pensiero che adottiamo per elaborare la realtà.
Ne prendo in esame due, ma i bias sono numerosissimi.
Bias della Disponibilità
Una prima risposta all’origine delle mie domande viene dall’euristica della disponibilità. Questo bias ha a che fare soprattutto con il rischio.
Nel valutare la probabilità che un evento accada, secondo Daniel Kahneman, che ne parla diffusamente in Pensieri lenti e veloci (2011), facciamo riferimento soprattutto alla disponibilità di quell’evento nella nostra memoria, quindi non a dati statistici. Questo ci permette di considerarlo probabile o meno e di adottare di conseguenza le strategie opportune.
Ma quanti esempi abbiamo bisogno di richiamare alla memoria per confermare a noi stessi che quell’evento è probabile? In realtà, non è tanto il numero di quegli eventi, quanto la facilità o meno con cui li recuperiamo a farci percepire quella situazione come vera, probabile, pericolosa.
La facilità è anche legata all’impatto emotivo che quell’avvenimento ha avuto su di noi. Potrebbe quindi essere rarissimo, ma a forte impatto e per noi diventa un evento probabile.
Nella nostra memoria contemporanea, non c’era nessun evento paragonabile ad una pandemia. Se è presente nella memoria di una persona e in senso più ampio, di un popolo, quel popolo si organizza. Infatti le misure di protezione e di prevenzione esistono per prevenire calamità e disastri che sono realmente accaduti.
Gli antichi Egizi ad esempio, già 3000 anni fa riuscivano a prevedere benissimo il livello di esondazione del Nilo, evento “abbondante” nella loro memoria. I Giapponesi sanno gestire brillantemente le scosse di terremoto, con un’edilizia e delle norme di sicurezza adeguate. Su questo ahimè, avremmo molto da imparare come Italiani.
Nassim Taleb definisce Cigno Nero ( 2007) un evento imprevedibile, affermando che le tre caratteristiche che lo contraddistinguono sono oltre alla rarità, l’ impatto enorme e la prevedibilità “retrospettiva“, ma non “prospettiva“, scrivendo che:
“ciò che si conosce non può fare davvero male”.
Che cosa significa questo? Che la nostra mente sceglie di considerare pericoloso o probabile un evento non su base razionale, ma sulla fluidità e facilità con cui lo recupera nella sua mente.
Sono molte le conseguenze e i fattori legati a questo bias, che qui non approfondisco del tutto, come ad esempio il fatto che la percezione del pericolo sia legata anche al modo in cui i media trattano gli eventi, rispetto alla quantità di spazio che decidono di dedicargli, dando luogo alle cosiddette “cascate di disponibilità”.
Si tratta di vere e proprie catene autoalimentate di eventi, che producono un’enorme carica emotiva nelle persone e generano grande copertura mediatica. In situazioni simili, gli interventi degli uomini di scienza non vengono ascoltati. In sostanza la quantità di preoccupazione non è proporzionale alla probabilità del danno.
Ma chi è chiamato a decidere non può avvalersi solo di esperti imparziali che analizzino la fredda realtà in termini di numeri, deve tener conto anche delle emozioni delle persone, perché come sostiene Kahneman:
“ragionevole o no che sia, la paura è dolorosa e debilitante e i politici devono sforzarsi di proteggere il pubblico, non solo dal pericolo vero, ma anche dalla paura”.
In questi ultimi mesi, abbiamo avuto tutti paura e questa emozione condizionerà molte delle nostre decisioni. Il virus non è entrato solo nei nostri corpi, ma nella nostra memoria e lì rimarrà per un po’. È diventato quindi un ricordo disponibile che avrà un impatto su scelte, investimenti, decisioni a livello individuale e di sistema.
Non dobbiamo temere la paura, ma ascoltarla, prenderne consapevolezza, senza permetterle di diventare l’origine di tutte le scelte che faremo nel prossimo futuro.
La seconda risposta all’origine delle mie domande, viene dal Senno di Poi.
Un altro dei limiti della nostra mente consiste nell’incapacità di ricostruire stati passati di conoscenza o convinzioni che non abbiamo più perché sono cambiati. Infatti il “senno di poi” ci porta a considerare il passato come il risultato di un insieme di eventi in successione, gli uni causa degli altri, in una visione deterministica della storia.
Con il senno di poi, ogni evento appare perfettamente prevedibile, i fatti sembrano scontati, si scoprono anche connessioni tra loro, ma nella realtà, le relazioni che osserviamo a posteriori e che sembrano intuibili, non lo sono affatto. Sembra banale e scontato, ma non lo è.
Un po’ di storia:
Il primo a parlare dell’effetto del senno di poi fu Baruch Fischhoff, un ricercatore americano, che condusse insieme ad una collega uno studio in merito alla visita del presidente Nixon in Cina e in Russia nel 1972. Vennero valutati 15 possibili risvolti che questa visita avrebbe suscitato, dai più pessimisti ai più ottimisti.
Al rientro di Nixon dal viaggio, Fischhoff chiese ai volontari di ricordare le probabilità che avevano dato ai singoli scenari. I risultati dimostravano che se un evento si era verificato, gli intervistati esageravano le probabilità che vi avevano assegnato in precedenza, se l’evento non si era verificato, ricordavano (sbagliando) di averlo sempre considerato poco probabile.
Tendiamo quindi a sottovalutare perché alcuni eventi del passato ci abbiano stupito. Siamo portati a rivedere la storia delle nostre convinzioni sul passato, alla luce di quanto è accaduto e non alla luce delle convinzioni che ritenevamo ragionevoli in quel momento.
Questo produce una potente illusione cognitiva, chiamata hindsight bias, utile sia per chi decide, ma anche per chi valuta il decisore.
Il bias del risultato poi è particolarmente rilevante per delle categorie specifiche: medici, consulenti finanziari, amministratori delegati, imprenditori, manager, uomini politici e non ultimi gli allenatori, di cui diventiamo tutti impietosi giudici, in caso di errore.
Pensate ad esempio, ad un consulente finanziario che sta consigliando un suo cliente. Saremo portati ad approvare la sua proposta o decisione sulla soluzione finanziaria per i nostri risparmi (e anche ad avere maggiore fiducia in lui) se avremo guadagnato o viceversa a biasimarlo (con la probabilità di riporre in lui meno fiducia) se ci avrà fatto perdere. Tutto questo potrebbe apparirci anche più che logico, sotto molti punti di vista. Da cliente, mi interessano i risultati.
Ma attenzione, non sempre il risultato è la conferma di una scelta opportuna. Esiste il caso, esistono gli imprevisti.
Le oscillazioni del mercato, pensiamo alla situazione presente, non sono per definizione prevedibili e una soluzione cauta e responsabile al momento, potrebbe apparire scellerata a posteriori e viceversa. E noi che valutiamo a posteriori, giudichiamo unicamente il risultato.
Questo induce chi sta osservando un evento a valutare la qualità di una decisione, non in base del fatto che il processo decisionale sia o meno sano, ma in base al fatto che il risultato sia stato buono o cattivo.
E non sempre i due aspetti sono collegati. La conseguenza è che chi deve prendere le decisioni e assumersi delle responsabilità, dovrà prendere mille precauzioni di tipo burocratico per tutelarsi dal senno di poi.
Pensiamo ad un medico che potrebbe trovarsi a prescrivere più esami di quelli che la sua competenza gli suggerirebbe per indagare i sintomi dei suoi pazienti, o ad inviarli ad un maggior numero di visite da specialisti.
In generale, gli effetti del bias del risultato e del senno di poi concorrono ad abbassare la propensione al rischio di chi deve decidere, ma allo stesso tempo fanno anche in modo di dare eccessive ricompense a chi ha commesso un’impresa, sfidando il pericolo e compiendo scelte molto audaci.
Infatti i leader che sono stati aiutati dalla fortuna e non necessariamente da una scelta lungimirante, ricevono grande approvazione dalla storia e non sempre si riesce a distinguere se la loro sia stata una decisione stupida, anche se magari ha funzionato bene.
Lo stesso Bias ha condizionato a posteriori, anche chi non ha previsto la crisi finanziaria del 2008, dove molti esperti sostenevano di “sapere” che sarebbe accaduta. Ma come scrive Kahneman utilizziamo spesso male il verbo “sapere”. Molti “pensavano” che sarebbe accaduta ma non “sapevano”, che è cosa ben diversa. Io so quando posso dimostrare.
E allora a cosa serve conoscere il Bias del Senno di poi e della Disponibilità?
Quando osserviamo gli eventi con gli occhi della retrospettiva, sembra tutto più semplice. Temo che nessuno di noi con la propria esperienza avrebbe potuto anche solo immaginare quanto oggi è avvenuto, considerando che non ne avevamo traccia nella nostra memoria generazionale.
Chi decide può sbagliare, esserne consapevoli non ci fa rinunciare alle nostre personali valutazioni, ma ci fa provare una maggiore comprensione verso la difficoltà di chi decide. Ma noi vorremmo sempre che chi ha le responsabilità delle nostre vite e prende decisioni così importanti, sia anche in grado di prevedere e immaginare gli scenari peggiori. Questo in un mondo ideale, sarebbe perfetto.
Inoltre spesso come sostiene Y. N. Harari in Sapiens (2014), abbiamo l’illusione di aver capito il passato e questa alimenta l’illusione di poter controllare il futuro, forse perché non amiamo arrenderci all’idea che il futuro sia imprevedibile:
“è una regola ferrea della storia: ciò che visto col senno di poi appare inevitabile è invece tutt’altro che ovvio nel momento in cui si verifica…Inoltre le possibilità che sembrano meno probabili ai contemporanei, sono quelle che alla fine si realizzano.”
Quanto sarebbe stata inutile la nostra conoscenza del mondo, per immaginare quanto sarebbe accaduto alla vigilia del 1914, o per immaginare l’ascesa di Hitler e la successiva guerra che ne scaturì. Solo la storia ci dirà se le decisioni che sono state già prese e quelle che vedremo e prenderemo individualmente e collettivamente in questi mesi, saranno decisioni sagge o meno.
Non possiamo e non dobbiamo rinunciare a guardare il passato, ma possiamo farlo con senso critico, valutazione empatica e meno certezze.
È stato recentemente scoperto che i neuroni coinvolti nel prevedere il futuro sono gli stessi che utilizziamo per ricordare il passato. Immaginiamo il futuro, partendo dalle memorie del passato. Per costruire il futuro che ci aspetta dobbiamo abbandonare quella che Taleb definisce la “platonicità”, la tendenza ad interpretare il mondo con le nostre mappe e modelli già conosciuti e tornare al paradosso di Socrate: “so di non sapere”.
Abbiamo bisogno di molta più immaginazione di quella che abbiamo a disposizione.
Dobbiamo spostare la nostra attenzione su ciò che non conosciamo, su ciò che non sappiamo, sui libri che non abbiamo ancora letto, su modelli economici non ancora utilizzati, ascoltare chi fa meno rumore per creare risposte inedite a questa nuova domanda della Storia.