Che la distanza sia vicinanza
Abbiamo condiviso l’esperienza di vivere per giorni nel perimetro delle nostre case, in una nuova dimensione intersoggettiva del tempo e dello spazio.
Ora ci è stato detto di ripartire, ma di farlo da oltre un metro di distanza.
Ci sentiamo come in un quadro di Edward Hopper, diventato forse per sbaglio, il simbolo di questo nuovo rapporto che stiamo disegnando con lo spazio, con la nostra Prossemica.
Questo rapporto è già cambiato e l’ho osservato ieri mattina, nella mia prima corsa della fase 2. Ho incontrato molte persone che si allenavano. Ad ogni opportunità di incontro, facevamo reciprocamente attenzione ad allontanarci gli uni dagli altri, evitandoci accuratamente, prendendo automaticamente le distanze, come se in questi mesi avessimo abilmente allenato la nostra intelligenza cinetica, quella che permette ai ballerini di giocare magicamente nello spazio. Abbiamo sorriso e da perfetti sconosciuti ci siamo salutati, uniti da un nuovo comune destino, che ci rende tutti ignari complici.
Nel trovare questo equilibrio fisico, eravamo esattamente come i famosi porcospini di A. Schopenhauer, intenti nella ricerca di quella reciproca distanza che permetteva loro di scaldarsi ma non pungersi con le spine.
Ma mi chiedo se sarà sempre questo l’effetto delle nuove distanze che stiamo mettendo tra noi e gli altri.
Ho sempre pensato alla Prossemica come ad una grammatica dello Spazio, in cui regole non scritte ma note a tutti, definissero il grado di vicinanza e lontananza da tenere tra noi e gli altri.
Perché è così, lo Spazio parla, parla di noi, dell’importanza che attribuiamo a chi ci sta attorno, al momento che viviamo, all’intensità con cui vogliamo che il nostro mondo si connetta con ciò che ci circonda.
Ma d’ora in poi, non appena torneremo a riappropriarci del nostro tempo e del nostro spazio, delle nostre vite e dei nostri lavori, al di fuori di un monitor, dovremo ricordarci di lei, della Prossemica, almeno per un po’.
Per citare E.T. Hall e il suo saggio La dimensione nascosta, dovremo imporci una distanza, che non sarà quella intima, che caratterizza i rapporti stretti, tra partner, né personale, tipica delle interazioni amicali, ma sociale, propria delle relazioni formali.
E questa distanza non è normalmente misurabile, perché varia a seconda dei luoghi, delle culture e delle latitudini. Probabilmente ci adattiamo a questo spazio artificiale con più difficoltà rispetto ai Giapponesi ad esempio, che hanno dei rigidi protocolli sociali a sancire il significato di ogni loro movimento nello spazio. Quando abbiamo delle interazioni con loro, dobbiamo uscire dai nostri abituali schemi e interpretare con una percezione diversa, il loro linguaggio dello spazio.
La prossemica ha importanza anche in ufficio, quando riceviamo un cliente o un candidato per un colloquio, prestiamo particolare attenzione all’intero setting, alla vicinanza delle sedie e alla posizione del tavolo, cercando laddove possibile, di non lasciare nulla al caso.
Ma questo isolamento ha creato dei nuovi spazi che avremo il compito di semantizzare, cercando di allargare la nostra distanza personale. Sarà il nuovo spazio che ci avvolgerà, in cui proteggeremo noi stessi e gli altri.
Non naturale, né biologico, ma vitale.
Probabilmente sarebbe il caso di parlare di distanza fisica e non sociale, ci farebbe accettare meglio questo ossimoro che ci avvolge.
Come faremo quindi per evitare che quella distanza diventi lontananza, con i clienti, i colleghi, i collaboratori?
In presenza o dietro un monitor, qualcosa è cambiato e personalmente ci sono alcuni aspetti della comunicazione interpersonale che in questo preciso momento, credo possano fare la differenza, più di “prima”. Vediamoli insieme:
- Diamo nuovamente potere al nostro sguardo e al contatto visivo, ora più che mai, anche se dobbiamo rivolgerlo ad una web cam. Se invece siamo in presenza, gli occhi sono l’unica parte del nostro viso non celata dalla mascherina. Fino a poco tempo fa, si rischiava di privilegiare lo schermo del nostro smartphone allo sguardo del nostro interlocutore, anche se per un breve istante, per controllare l’ultima notifica ricevuta. Ora è il momento di connetterci completamente con chi abbiamo di fronte, dandogli la nostra più totale e completa attenzione.
- Pensiamo bene alle parole. Scegliamo quelle opportune, non quelle che non avremmo voluto dire. Ricordiamo che se parliamo attraverso le negazioni, stiamo mandando esattamente il messaggio che vorremmo evitare, ad esempio: “spero di non averla annoiata, di non averle rubato del tempo, di non disturbarla”. Il nostro cervello non legge le regole della sintassi.
- Ricordiamoci della sincronia. Questa acquisisce ancora più importanza se parliamo attraverso un monitor, nello spazio virtuale è ancora più sgradevole che in presenza, sovrapporsi alla persona con cui stiamo dialogando; aspettiamo prima di rispondere, attendiamo che l’altro abbia terminato, diamo più tempo e più spazio all’altro, per poi esprimere la nostra opinione.
- Potenziamo l’ascolto attivo, prestiamo attenzione ai silenzi, ascoltiamoli, ampliamoli, osserviamo le espressioni del viso e verbalizziamole: “Vedo che hai lo sguardo rivolto verso il basso, vedo che hai cambiato espressione, tono di voce, vuoi aggiungere qualcosa?” Per dare ulteriore valore ad un’espressione dell’altra persona o per confermare il nostro ascolto, quindi la nostra attenzione, possiamo riformulare quanto ha detto “Se ho capito bene quindi, mi stai dicendo che ..”
Ricordiamoci di riconoscere l’altro, sempre.
Il distanziamento sociale ci ha privato e ci priverà per un po’ del contatto fisico, che rimane spesso un veicolo importante per trasmettere molte delle nostre emozioni. Dobbiamo evitare le strette di mano, gli abbracci con tutta l’ossitocina che sprigionano ed evitare ad esempio, di salutare il nostro cliente, accompagnandolo alla porta, standogli vicino.
Dobbiamo evitare tutti quei segnali con cui eravamo abituati a dimostrare vicinanza, violando volutamente quella bolla fisica, per comunicare la nostra presenza.
Dovremo trovare un modo diverso per darci delle Carezze che oltre al significato che normalmente diamo a questa parola, rappresentano secondo Eric Berne, padre dell’Analisi Transazionale, un’unità di riconoscimento sociale e di cui presto tornerò a parlare.
Ma molte delle carezze passano dalle nostre parole, dal modo in cui diamo valore all’altro e riconosciamo una sua caratteristica, per noi importante, che l’altro talvolta non sa di avere e sprigionano altrettanta ossitocina.
In questo momento assumono ancora più rilevanza, per compensare il bilancio emotivo di quanto ciascuno di noi ha vissuto, danno delle conferme, danno fiducia, danno forza.
Indipendentemente dalle nostre abitudini, aumentiamo le carezze (anche verso noi stessi), quelle autentiche e che a volte pensiamo siano scontate, ci servono per accorciare davvero quella distanza che la storia ha creato e che sta a noi trasformare in vicinanza.