La Magia del Potenziale, come risplendere quando fuori è buio.
l lavoro è sempre connesso all’attualità, ne è l’inevitabile riflesso. L’esperienza collettiva che stiamo attraversando ha modificato il nostro modo di vivere, di lavorare e ci ha dato anche prova di quanto siamo legati. E anche quando non lo sappiamo, o non vogliamo saperlo, il nostro successo e la nostra stessa vita sono connesse a quelle degli altri.
La collaborazione è un po’ la regina delle soft skills, immancabile presenza in ogni cv, viene sempre coinvolta nel rituale di ciascun colloquio che si rispetti . Ma la verità è che in fondo, dopo la recita della sua necessità, quando siamo nel silenzio della nostra individualità, pensiamo di poterne fare anche a meno. Pensiamo di bastare a noi stessi e che attingere al talento delle persone che ci circondano, possa toglierci qualcosa: meriti, opportunità, una parte di noi.
È un approccio umano e comprensibile, ma nasce dalla Paura ed è con la paura di perdere qualcosa che tratteremo gli altri, non con il piacere di dare e di ricevere. Se continuiamo a giocare in solitaria, ci capiterà di vincere qualche partita, mantenendo il nostro sguardo a mezz’aria. Ma se alziamo lo sguardo in alto, siamo proprio sicuri che ci basti la singola partita, oppure potremmo desiderare molto di più?
Ora più che mai è il momento di andare oltre. È il momento di parlare di Potenziale collettivo, che trascende la collaborazione . Shawn Achor, autore e studioso tra i maggiori esperti al mondo di felicità e benessere organizzativo, lo fa nel suo libro Big Potential da cui ora attingo per condividere alcune riflessioni, che sono anche al centro dei miei training in azienda dedicati al teambuilding e alla leadereship. Ma andiamo per ordine, prima è necessaria una piccola premessa che parte da molto lontano.
Aristotele nella Metafisica distingueva la Potenza dall’Atto, definendo la prima come grado dell’Essere in cui L’essere è “possibile”, dalla seconda in cui il grado dell’Essere è reale.
Se ci pensiamo, in tutto quello che facciamo c’è un atto e c’è una Potenza e quando guardiamo la Persona solo per ciò che è, e non per ciò che potrebbe essere, rinunciamo ad un’imprevedibile esplorazione dell’essere umano che abbiamo di fronte.
Per chi si occupa di sviluppo delle persone, in azienda ma non solo, è un’esplorazione irrinunciabile. E lo è ancora di più quando dimentichiamo non solo cosa potrebbe esprimere quella persona, ma quanto lo stesso individuo riuscirebbe ad esprimere, contribuendo anche allo sviluppo degli altri. Non è un’affermazione buonista, ma un principio che può contribuire alla nostra evoluzione. Vediamo in che modo.
SMALL E BIG POTENTIAL
Siamo abituati a pensare che sarà sempre lui ad emergere: il più brillante, motivato, intelligente. In molte aziende ma anche nelle scuole, vengono spesso premiate le performance individuali: parliamo di punteggi ottenuti in un test, numero di vendite effettuate, clienti acquisiti. È una strada che si può continuare a percorrere, la conosciamo bene. È la strada che valorizza lo small potential :“ il potenziale isolato è il successo limitato che possiamo conseguire da soli.”
Ma riuscire a conseguire il nostro più alto potenziale non riguarda la sopravvivenza del più adatto in termini assoluti, ma “ del più adatto in relazione alle diverse situazioni e alle persone coinvolte”. Il successo non dipende solo da quanto siamo brillanti, intelligenti e motivati come individui, ma da quanto siamo in grado di connetterci con l’ecosistema di persone che ci coinvolgono, quanto contribuiamo a questo ecosistema e quanto riusciamo a beneficiarne”.
“Big Potential o potenziale collettivo è il successo che possiamo conseguire solo all’interno di un circolo virtuoso che comprenda gli altri.”
GOOGLE E HARVARD
Ma quali sono le caratteristiche di un dream team? Può esistere ? Erano alcune delle domande che in Google si sono posti nel 2012, nell’ambito di un progetto interdisciplinare denominato “Progetto Aristotele”. L’obiettivo dello studio era capire come mai alcuni gruppi ottengono risultati lavorativi incredibili, mentre altri si attestano a livelli molto bassi. La domanda che era alla base del progetto era “Quali specifiche qualità dovrebbe avere una persona per far parte di un team vincente? La domanda era in apparenza facile. Sarebbe bastato scegliere i migliori? Ma quali qualità avrebbero dovuto possedere?
Parlare sei lingue? Avere un Qi alto?
La conclusione fu che la persona con le caratteristiche perfette di per sé non esiste e “l’elemento del chi nell’equazione sembra non avere importanza” , il chi conta meno del come.
In sintesi, non conta quante lauree abbiamo, quante lingue parliamo, ma la differenza è data dalla sopravvivenza del più adatto in relazione alla situazione e alle persone coinvolte. Quando si parla di potenziali, i tratti individuali da soli non sono in grado di predire il successo di una persona nel team, perché va analizzato l’ecosistema che li circonda. Il chi misura solo lo small potential. Il progetto Aristotele rivelò quindi che:
1) È importante che gli individui che compongono un team abbiano una forte consapevolezza delle connessioni sociali;
2) Se il team favorisce lo sviluppo di un ambiente in cui ogni membro ha uguale diritto di parola e tutti si sentono a proprio agio nell’esprimere le loro idee, a quel punto il team raggiungerà il suo più alto livello di performance.
Quindi, il team più intelligente non è necessariamente quello formato dalle persone che prese singolarmente lo sono di più, ma quello dotato di “un’intelligenza collettiva”, insomma per tornare ad Aristotele: “il tutto è maggiore della somma delle sue parti” .
Ad Harvard, Achor condusse personalmente una ricerca analoga: riuscire a determinare gli attributi individuali in grado di prevedere quali sarebbero stati gli studenti più felici e di maggior successo. Dopo aver raccolto un’enorme quantità di dati che andavano dalla condizione economica, ai voti che avevano gli studenti al liceo, al numero di ore che dormivano e molti altri elementi, ci fu una costante illuminante: le connessioni sociali.
Quanto più una persona si percepiva legata agli altri e dagli altri supportata, tanto più si riusciva a predire la sua capacità di crescere ad Harvard, dal punto di vista accademico e personale. La percezione delle proprie connessioni sociali era inoltre una barriera molto efficace contro la depressione.
La competizione di per sé è stimolante e se positiva ha un buon impatto sulla crescita delle persone. Pensiamo alla competizione nel mondo dello sport, quella sana, divertente.
Ma se creiamo ambienti iper – competitivi, in cui vengono premiati solo i successi individuali, i gruppi rischiano di perdere enormi quantità di potenziale, di talento e di creatività perché colleghi faranno di tutto per nascondersi le informazioni e vince il principio di scarsità. Per i leader quindi è importante cambiare oltre alla mentalità anche il linguaggio, che ne è il riflesso.
Possiamo smettere di chiedere:
“Quanto duramente lavori” o “Quanto sei creativo?”
E trasformare queste domande in:
“Tu quanto riesci a stimolare l’interesse, il coinvolgimento, l’intelligenza di chi ti circonda?”
“Quanto è contagioso il tuo entusiasmo per il tuo gruppo, il tuo ufficio ?”
“In che modo hai aiutato il tuo gruppo nell’ultimo periodo a migliorare?”
Questo significa cambiare anche tutti i sistemi premianti, significa cambiare la cultura della ricompensa. Sicuramente per il futuro non sarà più utile allo sviluppo del potenziale collettivo un leader transazionale, che elargisce feedback e ricompense in cambio di ottimi risultati. Sarà più adatta una leadership trasformativa, un leader che non negozia tra relazione e risultati, ma influenza e incoraggia le persone a individuare punti di vista diversi, a creare e a correre anche il rischio di sbagliare.
Un leader che crede che il potenziale non sia qualcosa di isolato e che per poter dare il meglio non basti una stella luminosa, ma sia necessario creare una costellazione, quindi un ecosistema del potenziale, che permetta a tutti di attingervi, un po’ come accade per le lucciole.
IL PROFESSOR SMITH E IL MIRACOLO DELLE MANGROVIE
Il professor Smith era un biologo che nel 1935 si trovava per una sua ricerca in una foresta di mangrovie lungo la riva di un fiume nel Sud- Est Asiatico. Mentre Smith guardava un isolotto di mangrovie, vide che l’intera chioma dell’agglomerato brillò. Poi si fece buio, poco dopo il lampo si ripetè di nuovo, poi di nuovo buio. Poi ad un tratto tutti gli isolotti lungo la sponda del fiume brillarono all’unisono. Tutte le piante che costeggiavano il fiume brillavano insieme e poi si spegnevano.
Smith ci mise un po’ a rendersi conto di quanto stesse accadendo: le piante in realtà non stavano brillando, ma erano coperte da una quantità immensa di lucciole che si illuminavano all’unisono. Quando i professore rientrò negli stati Uniti, scrisse un articolo sulle lucciole sincrone. Ma non fu preso sul serio dai suoi colleghi che si chiesero “come poteva il caos regnare in Natura senza un leader a dirigere tutto? “Perché le lucciole maschio avrebbero brillato all’unisono, riducendo le loro probabilità di farsi vedere agli occhi di potenziali compagne? ” Come mai milioni lucciole potessero vederne altrettante per ricreare lo stesso schema, considerato il buio della foresta?
Tutto sembrava matematicamente e biologicamente impossibile. In realtà per la scienza di oggi il comportamento delle lucciole è assolutamente spiegabile:
Quando le lucciole brillano in modo casuale, la probabilità che una femmina risponda ad un maschio nel buio di una foresta di mangrovie e del 3 %. Ma quando le lucciole brillano insieme, la probabilità arriva all’82%
Le probabilità di successo aumentano di ben 79 punti percentuali quando le lucciole brillano come un’unica comunità interconnessa invece che come individui.
“La società insegna che è meglio essere l’unica fonte luminosa in una foresta buia, anziché vivere in una foresta di fonti luminose”.
Ma come possono le lucciole brillare tutte all’unisono? Recentemente è stato scoperto che le lucciole non devono vedersi tutte per essere sincronizzate. A meno che non ci siano delle lucciole fuori dalla vista di un qualsiasi altro gruppo, questi insetti sono in grado di sincronizzare il loro ritmo e lo stesso vale per gli esseri umani. Bastano quindi pochi “nodi” positivi per modificare l’intero sistema.
Se diventiamo un “nodo ” positivo, non solo possiamo aiutare il nostro team a crescere , ma stiamo crescendo anche noi. Questa magia non finisce qui, perché i biologi che hanno esplorato le giungle del Sud- Est Asiatico sanno che il bagliore emanato dalle mangrovie può essere visto a chilometri distanza. Questo vuol dire che è ancora più facile per altre lucciole trovare la luce. Più il bagliore è luminoso e più sono numerosi i nuovi membri che si uniscono al gruppo e che contribuiscono con la loro luce. Mi sembra la risposta migliore che in questo particolare momento possiamo mettere in atto, qualunque sia il nostro ecosistema e il nostro contesto.
E questo vale anche per noi, come per le lucciole, più aiuteremo gli altri a trovare la loro luce, più brilleremo anche noi.